Rusich

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L'Amara Storia di Sergio Rusich

giovedì 27 marzo 2008

L'anima buona di Shen-te


"Io voglio andare con l'uomo che amo non voglio sapere quanto costa non voglio sapere se faccio bene o faccio male nemmeno se mi ama voglio soltanto quello che io amo." È l'anima buona di Shen-Te che canta l'amore con questa poesia di Brecht e può sembrare strano che per parlare d'amore prenda a prestito proprio le parole di un poeta conosciuto per il suo rigore culturale e politico, per la sua epicità. Così come quando ho allestito uno spettacolo che parlava interamente d'amore, L'anima buona di Sezuan, non c'è nessun trionfalismo, nessuna piccola caparbietà, nessuna nostalgia di coerenza, nel riparlare d'amore, ancora una volta, attraverso le parole di Brecht. C'è invece la constatazione, chiara, quasi serena, che queste parole hanno riconquistato - semmai l'avevano persa - la loro necessità, la loro attualità tragica, la loro sconvolgente novità formale, di quando non l'avessero al momento della loro scrittura. E ciò in un mondo, come il nostro, in cui, mi pare, si sta realmente perdendo ogni misura, in cui ci si avvia verso un destino arido, verso forse una catastrofe atomica dominata dalla freddezza e dall'intolleranza, incapace ormai di intendere la vita come "atto quotidiano", come "normalità" e non come eccezione, in un mondo in cui il problema del male è solo la prova dell'orrore che è diventato ormai un'abitudine, quando fissiamo quasi con indifferenza la violenza che ci circonda, le corruzioni, il dilagare di un intrico di interessi solo materiali dove persine il divertimento è diventato un continuo, futuribile, massacro a colori. In questo mondo una parola come amore può far paura, se non è pronunciata con un contorno di eroismo, di impossibilità, di schizofrenie, di caratteri codificati, dove persine la pubblicità ci suggerisce parole e comportamenti che dovrebbero nascere dal cuore. È un paradigma della "schizofrenia sociale" in cui viviamo, di questa spirale di dissociazione che sembra non aver più soluzione di continuità. Penso alla follia dell'era "atomica" - come la chiama Fornari - al terrore atomico che ci fa esorcizzare il male attraverso la continua accettazione della violenza. Penso ad uomini costretti ormai a vivere il crepuscolo di questo giardino manicomiale del mondo in cui ancora, nel suo spazio di vuoto perlaceo, intorno ad una distesa di acque e di fango e di rifiuti, sorgono e tramontano lune e soli, e tanto poco amore. E la sua dissoluzione è solo in noi. È affare nostro, di noi appunto, come dice Brecht "effimeri di questo pianeta, ultimo rifugio, che è fatto così". E allora, anche l'amore, una delle poche cose "ecologiche" che restano in noi, diventa il sintomo, la via, la luce per illuminare non lâeterno rifugio di sogno, ma per dilatare, vivere fino in fondo questi piccoli spazi di verità intima, personale, spesso segreta, che ancora ci restano. E allora insinuiamo in noi il sospetto di questa dolce debolezza. Diceva Brecht: "...debolezze, tu non ne avevi ö io ne avevo una, amavo". 

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