Rusich

Rusich
L'Amara Storia di Sergio Rusich

martedì 17 novembre 2009

Sergio Rusich: una storia nella storia

Quella mattina la Montagnola si svegliò coperta da una neve morbida e bianca sotto un cielo limpido senza traccia di nuvole. Il sole riverberava una luce abbagliante che dalle grandi finestre invadeva le aule e inebriava i ragazzi. I maestri si resero conto subito che tenerli in classe sarebbe stato impossibile, anche perché loro stessi si sentivano irresistibilmente attratti da quello che c’era fuori. Bastava che ognuno aprisse la porta-finestra che dava sul giardino e tutti sarebbero stati travolti in una dimensione di festa.

Il primo ad aprire la porta della sua aula fu il maestro Rusich. In cinque minuti nemmeno, il grande giardino che abbracciava tutta la scuola seguendola lungo il dipanarsi della sua articolata struttura, fu invaso dai bambini e dalle bambine.

Sulla neve intatta si staccarono i colori vivaci delle giacche e dei cappotti messi alla svelta sui grembiuli, delle sciarpe, dei berretti e dei guanti che si rivelarono indispensabili per fabbricare le palle di neve che volarono da ogni parte nelle innumerevoli battaglie che si scatenarono contemporaneamente sui diversi fronti. Maschi contro femmine, classi contro classi, lotte intestine nella stessa classe, capovolgimenti rapidi di alleanze, tradimenti improvvisi tra gli amici del cuore, vendette covate da tempo contro il maestro, rese di conti tra maestri, non mancarono neppure pallate di approccio nascente con qualche giovane collega a cui la neve donava molto. Le maestre preferirono una strategia meno selvaggia e incoraggiarono la crescita dei pupazzi di neve di tutti i tipi e di tutte le grandezze e fu così che la competizione si trasferì allora ad un livello pedagogicamente più alto. Luciano Gori schizzava di qua e di là e con la sua superotto riuscì a cogliere inquadrature memorabili. Ma l’eroe della giornata fu il maestro Rusich. Il suo possente fisico di atleta e la sua energia incontenibile trovarono nella neve l’occasione di esplodere e di contagiare tutti noi. Il suo capolavoro fu il grande fuoco che accese in mezzo al giardino e le salsicce che mandò a comprare con la complicità consapevole di una bidella. I ragazzi continuarono a cercare legna per tutta la mattina perché il fuoco non si spengesse e il maestro Rusich fu molto bravo a curare le braci spostandole via via di lato in modo da cuocere a fuoco lento le numerose salsicce infilate negli spiedi che aveva ricavato dai rametti di legno usando abilmente il coltello a serramanico che si portava sempre dietro.

Fece la sua comparsa anche un fiasco di vino e un pentolino che il maestro Rusich tirò fuori per preparare il “vin brulè” per i maestri e le maestre che ancora erano rimasti fuori.

Questo era Sergio Rusich. Sembrava che la scuola gli fosse sempre troppo stretta. Amava la natura e questo insegnava ai suoi ragazzi. Li potevi vedere spesso camminare a piedi fin verso le Cascine dove con la buona stagione preferiva fare lezione.

Aveva gli occhi di un azzurro così intenso che cambiava tonalità a seconda del colore del cielo e delle variazioni del suo umore, che spesso ti sorprendevano perché non ne capivi il motivo. A volte l’azzurro era chiaro come un cielo sereno illuminato dal sole, a volte era scuro e minaccioso come il mare in tempesta. Ho sempre pensato che dentro i suoi occhi ci fosse il mare di Pola, il mare della sua terra natia che lui, quando era in buona, spesso ci raccontava.

Potevi quasi sentire il vento che sbatteva la vela bianca della sua barca, vedere lo sforzo delle braccia sui remi della canoa, immaginare le sensazioni che dava l’acqua di quel mare nelle lunghe nuotate. E poi i boschi come lui li descriveva, più selvaggi dei nostri, i boschi che amava e dove era stato partigiano, i boschi che narrava neisuoi libri scritti per i ragazzi.

Antifascista e socialista Sergio ventenne aveva combattuto i fascisti e i nazisti, trovandosi spesso in forti difficoltà con i partigiani di Tito che volevano riprendersi l’Istria, come poi avvenne. Preso prigioniero dai tedeschi e deportato nel campo di Flossemburg riuscì a tornare a casa, ma dopo pochi anni la sua terra passò alla Juguslavia. Lui insieme alla sua cara Fanny si trasferì a Firenze e prese casa all’Isolotto. Fu tra i profughi istriani che tornarono in questo quartiere, di cui, insieme a noi, hanno fatto la storia. Sergio la storia l’ha fatta sempre dalla parte giusta: un vero socialista alla Sandro Pertini, iscritto alla CGIL Scuola, fu tra i fondatori di questo sindacato sessantottino che aveva scelto di mescolare gli insegnanti agli operai e di tenere insieme i socialisti con i comunisti e le sinistre varie. – Perché – lui diceva sempre – i comunisti italiani non sono come quelli di Tito, sono compagni veri. –

E compagni siamo stati davvero nella scuola e fuori della scuola. Insieme anche sul banco degli imputati per i fatti dell’Isolotto, processati per manifestazione non autorizzata e con un Pubblico Ministero donna che chiese l’assoluzione. – Quercioli, ma come è bella. – mi disse in un orecchio appena il giudice emanò la sentenza. Ci si chiamava sempre per cognome: il Rusich, il Quercioli, il Berni, lo Sbordoni, il Bruscaglioni, la Soldani, la Catizzone, la Iera, il Vezzani e così via. Allora usava così, il passaggio dal cognome al nome segnava un passaggio verso un rapporto più confidenziale, di amicizia più stretta.

Per nome ci siamo chiamati solo negli ultimi anni. Quella mattina nell’ottobre del sessantotto i genitori organizzarono lo sciopero dei ragazzi della scuola per protestare contro il Cardinale Florit che aveva rimosso Enzo Mazzi da parroco. Molti furono i maestri che andarono in corteo insieme agli alunni e ai genitori; una lunga camminata dalla chiesa dell’Isolotto fino all’Arcivescovado per finire sugli scalini del Duomo a leggere il catechismo della Comunità. Tra questi in prima fila si staccava la figura imponente del maestro Rusich. Nei nostri confronti il Provveditorato agli Studi fu spinto ad aprire una inchiesta amministrativa, che il Provveditore Marcello Tarchi, antifascista di lunga data, concluse senza prendere provvedimenti. Ci eravamo trovati sotto inchiesta anche qualche anno prima a causa di una iniziativa che insieme a Sergio prendemmo per celebrare con gli alunni la ricorrenza del 25 aprile, ma anche quella volta il Provveditore si limitò a raccomandarci maggiore prudenza. – Per noi la prudenza è fare quello che serve perché quel regime non torni più – Fu il suo commento rapido e coinciso.

Da allora passarono tanti anni prima che ci rivedessimo alla Casa del Popolo dell’Isolotto a conclusione del ciclo di incontri che Sergio Rusich aveva fatto con gli alunni delle scuole parlando del suo Diario dal Campo di Flossemburg che aveva scritto da poco con la prefazione di Ernesto Balducci che lo aveva pubblicato nella sua collana Edizioni della Pace. Un libro di straordinaria intensità che poi presentò anche ai ragazzi della scuola media di Montespertoli dove facevo il Direttore. Fu un incontro particolarmente commovente perché Sergio, già provato da un ictus che lo aveva colpito l’anno prima, aveva acquistato una sensibilità particolare nel rapporto con i ragazzi di cui avvertiva sempre di più il fascino, per quella sorta di affinità profonda che l’anziano sente man mano che diventa più fragile e che aumenta il suo amore per la vita e per la verità. I ragazzi sentirono questo e l’applauso finale fu caldo come un abbraccio. L’assemblea si sciolse e lo accompagnai verso l’aula dei ragazzi bielorussi che in quei giorni erano nostri ospiti. Scendendo le scale si appoggiò al mio braccio – Sai questa gamba non mi regge più bene – Fu questa sua fragilità, per me improvvisa, a confondermi, quasi aumentasse il contrasto con la sua figura ancora imponente che acquistava sempre più una bellezza straordinaria, come non aveva mai avuto neppure quando era più giovane. L’incontro con i ragazzi bielorussi e le loro insegnanti lo rivelò in una luce che ancora una volta mi sorprese. Raccontò con la voce incrinata dalla commozione il suo amore per la loro terra lontana da cui venivano quei soldati con la stella rossa sul berretto che entrarono nel Campo di Flossemburg a liberare lui ed i suoi compagni ridotti a scheletri. Aveva con sé un libro che narrava una storia di partigiani bielorussi, il percorso di una brigata partigiana che si portò dietro donne, vecchi e bambini; una lunga marcia attraverso boschi immensi, sfuggendo ai soldati nazisti. Quei ragazzi ascoltavano le parole di Sergio tradotte dalle insegnanti e sentivano per la prima volta quella storia che era la loro storia da un vecchio partigiano italiano. Il giorno dopo Sergio mi telefonò – Franco, compra due casse d’arance di limoni per mio conto, portale su e di’ loro che portino con sé il sole dell’Italia. –

E’ il sole che ci accompagnerà sempre, caro Sergio, il sole che ci hai lasciato.